Si è chiuso a Torino l’edizione 2025 del Salone internazionale del libro
Non c’è un solo modo per raccontare il Salone del Libro di Torino, e chi prova a farlo usando parole come “manifestazione”, “rassegna”, “appuntamenti” e “panel” probabilmente ha letto solo il programma stampa e poi è andato a bersi un negroni in centro. Il Salone vero — quello che pulsa tra le corsie del Lingotto, che suda carta e stupore, che ti fa dimenticare il tempo mentre sfogli un catalogo improbabile di letteratura finlandese femminista — è un altro. E noi c’eravamo. Tra un firmacopie, una fila di cinquantenni agitate per Yasmina Reza e l’odore confortante di migliaia di pagine in fermento.
Torino, 15 maggio 2025. Una città che sa essere sobria e barocca allo stesso tempo, ma che per cinque giorni all’anno si concede una follia: trasformarsi nella capitale più viva della cultura europea. E non è una frase da brochure. Al Salone, il “lettore” non è un’entità da dati ISTAT, ma una creatura concreta: ha gli occhiali un po’ storti, il sacchetto di Tunué sotto braccio, un’espressione assorta e l’ansia di arrivare in tempo all’incontro con Barbero.
La parola come carezza, come pugno, come gioco
Il tema dell’anno? “Le parole tra noi leggere”. Sottotitolo: come dire cose importanti senza sembrare il ministro della cultura. Dietro questa scelta, un omaggio a Lalla Romano e una voglia evidente di restituire alla parola scritta la sua delicatezza, la sua forza lieve. Annalena Benini, nuova direttrice editoriale, l’ha presa sul serio. Ha disegnato un Salone che non vuole più solo spiegare il mondo, ma magari anche consolarlo. O almeno accarezzarlo mentre si sfascia.
E in effetti, le parole sono volate leggere per davvero. Nei dialoghi improbabili tra Valérie Perrin e le ragazzine col libro in mano, nei racconti stropicciati di Michael Bible (che pare abbia conquistato pure il barista del padiglione 2), nei sorrisi gentili degli editori indipendenti con i titoli impossibili ma bellissimi. Una leggerezza mai sciocca. Una parola che pesa, sì, ma come piuma su un cuore già colmo.
Volti, voci, voli. Chi c’era (e chi avresti voluto vedere)
Il bello del Salone è che puoi trovarti a due metri da Joël Dicker senza accorgertene. Uno pensa: sarà circondato da fan, agenti, sicurezza, invece eccolo lì, che chiede un caffè all’edicola mobile della Feltrinelli come uno qualsiasi. Yasmina Reza ha aperto le danze con una lezione che in realtà sembrava una conversazione privata con 600 spettatori ammaliati. Jean Reno (sì, proprio quel Jean Reno) ha raccontato la sua passione per la scrittura — sorpresa generale — mentre alle sue spalle c’era una coda per i panini lunga come un romanzo russo.
Tra gli italiani, Alessandro Barbero ha fatto il solito miracolo: parlare di Dante come se stesse commentando un episodio di Breaking Bad. Dacia Maraini, elegante e affilata come sempre, ha ricordato a tutti che la letteratura può ancora essere militanza. Carlo Lucarelli ha portato la sua penna noir e quel tono da narratore notturno che ti fa venire voglia di rileggere tutto Blu Notte. E poi c’era Chiara Valerio, precisa e caustica, con una lucidità che ti lascia senza scuse: se non leggi, è perché non vuoi.
Il pubblico: un’umanità in attesa di rivelazioni
Il Salone è anche (soprattutto?) chi lo attraversa. Bambini che scoprono il loro primo libro illustrato, adolescenti che si guardano intorno come se fossero dentro un videogioco narrativo, signore con zaini pieni di romanzi storici, studenti in cerca di sconti, blogger in cerca di connessioni, professori in cerca di ragioni. Una folla gentile, che si chiede scusa per ogni spinta, che si siede per terra pur di ascoltare fino all’ultima parola di un incontro con autori che, per un attimo, sembrano rockstar.
E poi ci sono loro: gli editori indipendenti, quelli che hanno tirato su lo stand con le proprie mani, che ti raccontano ogni libro come se fosse un figlio, che sorridono anche quando non vendono, perché per loro esserci è già un atto di resistenza. E ogni acquisto diventa un piccolo gesto politico.
Fuori dal Lingotto, dentro la città
Salone Off. Se non lo conosci, hai perso mezza Torino. Il Salone si allarga, si infiltra nei bar, nelle biblioteche di quartiere, nei cinema, nei dehors. Una Torino parallela dove puoi ascoltare un reading in un cortile del centro o incontrare la tua scrittrice preferita che legge in pigiama (succede). In questi giorni la città si apre come un libro pop-up: ogni angolo diventa un capitolo, ogni vicolo un racconto a voce alta.
A San Salvario incontri lettori e lettrici notturni, a Vanchiglia ti ritrovi a discutere di letteratura giapponese in un’enoteca. Al Quadrilatero, i dj set serali sembrano usciti da un romanzo di Paolo Cognetti remixato da Luciana Littizzetto. C’è una voglia di leggerezza vera, quella che nasce solo quando la testa è piena di pensieri belli e le mani tengono stretto un libro.
Libri che sembrano magie
Certo, ci sono anche i bestseller, le code per i firmacopie, gli autori da selfie. Ma se guardi bene, dietro l’angolo, trovi le sorprese: case editrici minuscole che pubblicano traduzioni inedite, romanzi fuori catalogo risorti per l’occasione, poesie in dialetto sardo stampate su carta riciclata. Il Salone è anche il regno degli imprevisti: entri per comprare l’ultimo libro di Dicker, esci con un saggio illustrato sulle balene spirituali del Pacifico.
E poi c’è l’editoria queer, finalmente visibile e colorata, che non ha bisogno di padiglioni nascosti per esistere. C’è la sezione romance (sì, quella diretta da Erin Doom) dove le fan si emozionano davvero, senza ironie. C’è la zona ragazzi che sembra una navicella spaziale tra draghi di cartone e laboratori tattili. E ci sono i libri sulla salute mentale che finalmente parlano chiaro, senza giri di parole. Tutto ha spazio, tutto ha diritto di parola.
Gente che parla. Gente che ascolta. Gente che cambia idea
La forza del Salone non sta nei grandi nomi, ma nella possibilità di ascoltare — davvero. Di fermarti, di aprire una pagina e restare lì, sospeso, mentre qualcun altro prende la parola e la modella. Non è solo una fiera: è un esperimento sociale. In un tempo dove tutto è urgenza, qui si rallenta. Si sceglie di leggere. E leggere è già una forma di gentilezza.
Quante volte hai cambiato idea davanti a una copertina strana? Quante volte ti sei seduto a caso a un incontro e hai scoperto un autore che non conoscevi? Il Salone ti mette alla prova: sei disposto ad ascoltare qualcosa che non avevi previsto?
Quella strana gioia di sentirsi parte
Alla fine, non è neppure questione di libri. O meglio: i libri sono la scusa. Il Salone è una comunità temporanea che si costruisce ogni anno e poi svanisce. Un piccolo mondo dove la parola è ancora sacra, dove il silenzio di chi legge è rispettato, dove chi scrive non parla da un piedistallo ma si mescola tra gli altri. Un luogo in cui la cultura è fatta a mano, come il pane buono.
Ed è bellissimo sapere che, in un tempo così rumoroso, esistano ancora spazi come questo. Spazi in cui la lentezza è un valore. In cui puoi perderti e ritrovarti. In cui anche solo sfiorare la copertina di un libro può diventare un gesto d’affetto.
Appuntamento al prossimo capitolo
Quando esci dal Lingotto, il cielo sembra più grande. E non è solo una questione di luce. È che qualcosa si è smosso. Hai visto gente che leggeva, che si emozionava, che discuteva di storie. Hai visto autori tornare umani, editori diventare amici, libri diventare ponti.
Il Salone 2025 non è stato perfetto. Ma è stato, ancora una volta, un luogo dove la cultura ha mostrato il suo lato più vero: quello che non insegna, ma accoglie. Che non corregge, ma connette. Che non giudica, ma abbraccia.
E allora sì, ci rivediamo a maggio 2026. Con lo zaino pieno, il cuore aperto e la voglia — eterna — di perderci tra le parole.
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