Il silenzio dopo la luce: la morte di Sebastião Salgado
Ieri è morto Sebastião Salgado. Lo hanno annunciato con sobrietà, quasi con pudore. Perché Salgado era così: immenso eppure silenzioso, radicale ma discreto. Con lui se ne va uno degli sguardi più lucidi, profondi, partecipi del nostro tempo. Un testimone, un pellegrino, un uomo che ha scelto la fotografia come linguaggio morale prima che estetico. Ma la sua morte non è una fine. È un passaggio. Un invito a guardare il mondo con più rispetto, più lentezza, più coscienza.
Sebastião Salgado rappresenta plasticamente un concetto fondamentale, quello che è estetico deve essere anche etico. Perché la bellezza non esiste se non è anche buona e giusta.
L’uomo dietro l’obiettivo: un’infanzia tra Minas Gerais e le mappe del mondo
Per comprendere Sebastião Salgado non basta osservare le sue fotografie. Bisogna immaginare il vento rosso della terra di Aimorés, nel Minas Gerais, una terra aspra e luminosa dove il Brasile si presenta ancora nudo, selvaggio, antichissimo. È lì che nasce, nel 1944, in una grande famiglia proprietaria terriera. Ma non è la vita rurale che lo affascina: sono le mappe, i racconti, l’altrove. Studia economia a Vitória, poi a São Paulo. Negli anni ’60 si trasferisce con la moglie Lélia a Parigi, e comincia un percorso che sembra tracciato: carriera economica internazionale, incarichi in Africa per l’Organizzazione Internazionale del Caffè.
È proprio durante una missione in Ruanda che Sebastião prende in mano la macchina fotografica di Lélia. E qualcosa scatta. Letteralmente. Quell’obiettivo – che all’inizio è solo un passatempo – diventa in fretta una lente su tutto ciò che non riesce più a ignorare. La fotografia diventa strumento di analisi, ma anche di ribellione: al cinismo economico, all’astrazione dei numeri, all’indifferenza. La scelta è radicale. Lascia tutto. E comincia a fotografare. Con una lentezza meditata, quasi ossessiva. In bianco e nero, come se volesse restituire un’essenza.
Il fotografo come testimone: tra guerra, povertà e resistenza
Salgado non si limita a raccontare. Vive. Condivide. Partecipa. È questo che lo distingue fin dall’inizio. Other Americas (1986) è il suo primo progetto di grande impatto: sei anni tra contadini, minatori, comunità indigene dell’America Latina. Non c’è esotismo, né voyeurismo: c’è ascolto. La sua macchina è come una mano tesa. Nelle immagini c’è sempre un rispetto radicale. Ogni volto è una storia, mai una vittima.
Poi viene Sahel: l’homme en détresse (1986), realizzato insieme a Medici Senza Frontiere. Un viaggio nel cuore della carestia africana. Non solo fame, ma abbandono, isolamento, resilienza. Le fotografie diventano un grido, un atto politico. Salgado costringe il mondo a guardare.
Nel 1993 pubblica Workers, una monumentale raccolta che restituisce dignità al lavoro manuale in ogni angolo del pianeta. Dai cantieri navali del Bangladesh alle miniere di zolfo in Indonesia, dai pescatori del Kerala ai raccoglitori di canna da zucchero in Brasile, ogni scatto è una celebrazione della fatica e della forza. Non è nostalgia, ma coscienza. “Ho fotografato la fine del lavoro come lo abbiamo conosciuto per secoli,” dirà.
La mano dell’uomo
In Workers, Salgado crea una delle sue opere più emblematiche: una vera e propria epopea del lavoro. La serie si potrebbe intitolare anche “La mano dell’uomo”, perché è quella che plasma, costruisce, solleva, rompe, modella il mondo. Salgado osserva i corpi, li insegue nel gesto, li coglie nella ripetizione. Ogni muscolo, ogni sudore, ogni tensione delle dita racconta una storia millenaria: quella della trasformazione della materia attraverso la fatica. Dall’estrazione del sale al taglio delle foreste, dalle fornaci alle miniere d’oro, l’uomo è ancora centro e misura dell’azione. Ma anche la sua vittima. La potenza delle immagini sta nella loro ambiguità: sono epiche e tragiche, celebrative e critiche. Salgado fotografa una civiltà che si sta spegnendo, non senza rimpianto, ma con piena consapevolezza.
A fine anni ’90 arriva Migrations. Il mondo cambia. Le rotte si spostano. Gli uomini si muovono. Salgado segue questi flussi: profughi del Kosovo, rifugiati in Africa, immigrati messicani, esodi silenziosi e collettivi. Le sue immagini parlano di perdita e di speranza. Ogni fotografia è una storia sospesa tra ciò che è stato lasciato e ciò che non si sa se verrà mai trovato.
La fotografia come linguaggio etico
Il bianco e nero di Salgado non è un vezzo estetico. È una scelta morale. Serve a togliere il superfluo, ad andare al nocciolo delle cose. In un tempo dominato dalla velocità e dalla saturazione visiva, lui rallenta, scolpisce. Le sue immagini sembrano emerse dalla pietra. Non cercano lo shock, ma la risonanza. La composizione è rigorosa, spesso quasi pittorica, ma mai artificiosa.
La sua è una fotografia “umanista”, nel senso più profondo del termine. Non romantica, ma politica. Non commossa, ma partecipe. Alcuni lo hanno criticato per un certo estetismo nel dolore. Ma Salgado non si difende. Anzi. “Credo che la bellezza possa essere una forma di rispetto,” risponde. E forse ha ragione: le sue immagini non cercano di far pena, ma di far pensare.
La terra ferita: il progetto “Genesis”
Dopo anni trascorsi a documentare il lato più oscuro dell’umanità, Salgado si ammala. Il fisico si arrende. L’anima si spezza. È allora che decide di tornare alle origini: al Brasile, alla terra dei suoi padri, alle colline ormai spoglie attorno ad Aimorés. E nasce un’idea: piantare alberi. Rinascere. Da lì parte anche una nuova direzione fotografica.
Genesis è il progetto che prende forma da questo bisogno: raccontare ciò che ancora non è stato distrutto. Le zone incontaminate, i luoghi dove la natura regna sovrana, le comunità indigene che vivono in armonia con il pianeta. Dall’Antartide alla Papua Nuova Guinea, dal Deserto del Kalahari all’Amazzonia, Salgado compie un viaggio epico. Ma stavolta non cerca la sofferenza. Cerca l’origine. La bellezza primordiale.
Genesis è un atto d’amore, ma anche una denuncia implicita: guardate ciò che ancora c’è, e chiedetevi cosa ne sarà domani. Ogni fotografia è come una preghiera pagana, un rito di guarigione. Non più solo testimonianza, ma speranza.
Il ritorno alle radici: Instituto Terra e la rinascita possibile
Nel cuore del Brasile, in un’area devastata dalla deforestazione, Sebastião e Lélia hanno dato vita a uno dei progetti ambientali più significativi della contemporaneità: l’Instituto Terra. Nato nel 1998, il progetto parte dal desiderio di restituire vita alla fazenda della famiglia Salgado, completamente desertificata. Non una semplice operazione nostalgica, ma una scelta visionaria.
Attraverso la piantumazione di milioni di alberi autoctoni, l’Instituto ha rigenerato migliaia di ettari di foresta atlantica. Oggi quella valle è tornata a essere un ecosistema vivo, con oltre 170 specie animali tornate a popolare la zona. Ma soprattutto, è diventata un centro di educazione ambientale, un laboratorio di rinascita ecologica.
Salgado ha dimostrato che la fotografia può non solo denunciare, ma anche trasformare. Che la bellezza può essere coltivata. E che la memoria può diventare futuro. L’Instituto Terra è la sua opera più tangibile. Un paesaggio che respira, una foresta che testimonia.
Lélia Wanick Salgado: la mente, la visione, il cuore
Dietro ogni scatto, dietro ogni libro, dietro ogni mostra, c’è lei: Lélia. Architetta, editrice, curatrice, ma soprattutto compagna di vita e di sguardo. Senza Lélia, Sebastião non sarebbe stato il fotografo che conosciamo. Perché è lei a dargli struttura, ritmo, forma.
Lélia ha selezionato, impaginato, ideato l’architettura delle sue opere. Ha creato le esposizioni, ha costruito il racconto visivo, ha protetto la coerenza di un lavoro vastissimo. Il loro è stato un sodalizio creativo e affettivo unico, una dualità simbiotica. Dove Salgado vedeva il mondo, Lélia gli dava voce.
La loro unione ha trasformato la fotografia in un’arte collettiva, in una missione a due. E nel momento in cui la figura pubblica di Salgado si spegne, resta quella luce condivisa che Lélia ha saputo custodire per decenni. Una firma doppia, una visione condivisa.
Libri, mostre, film: Salgado come patrimonio dell’umanità
L’opera di Salgado non è rinchiusa in gallerie d’élite. È ovunque. Nei libri che hanno fatto storia: Workers, Exodus, Genesis. Nelle grandi mostre itineranti che hanno attraversato il mondo. Nei musei, nei centri culturali, nei festival. E in un film che lo ha raccontato come nessun altro: Il sale della terra di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, suo figlio.
Quel documentario è una dichiarazione d’amore, un ritratto intimo e profondo. Non solo del fotografo, ma dell’uomo. Delle sue crisi, dei suoi dubbi, della sua ricerca continua di un senso. E della potenza trasformativa del suo sguardo.
Eredità: uno sguardo che non si spegne
Ora che Sebastião Salgado non c’è più, restano le sue fotografie. Ma più ancora, resta il suo sguardo. Quella capacità di vedere l’essere umano nella sua grandezza e nella sua fragilità. Di guardare il mondo senza indifferenza. Di usare l’arte come responsabilità.
In un’epoca dove tutto passa, Salgado ha scelto di restare. Di incidere. Di coltivare. E questo lo rende immortale.
Il suo obiettivo non era solo catturare immagini. Era cambiare coscienze. E oggi, più che mai, ne abbiamo bisogno.
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