Un festival sospeso tra bellezza e vertigine
Ci sono momenti in cui Cannes sembra farsi da parte. La Croisette continua a luccicare, i flash esplodono, le passerelle si susseguono come rituali, eppure qualcosa rallenta. Cambia il passo, si prende una pausa, respira profondamente. L’edizione 2025 è stata così: più riflessiva, meno sfavillante. Un Cannes che non ha avuto paura del silenzio, del dubbio, del peso della realtà. Un Cannes che ha saputo scegliere.
Alla fine, la Palma d’Oro è andata a Jafar Panahi per It Was Just an Accident, ma il premio è stato solo l’ultimo tassello di un racconto più grande. Non solo il riconoscimento a un film, ma a una traiettoria umana e artistica che ha attraversato carcere, censura, esilio, e che ora torna sulla scena mondiale con la forza di un gesto libero.
Jafar Panahi, ritorno alla luce
Era dal 2010 che Panahi non metteva piede a Cannes. Da allora, il suo cinema aveva continuato a esistere nonostante tutto, a volte letteralmente in clandestinità, girato in appartamenti privati, con troupe ridotte e rischi altissimi. La sua figura era diventata simbolo di un cinema che resiste, che non si arrende, che trasforma il divieto in linguaggio. La sua presenza sul palco del Grand Théâtre Lumière è sembrata surreale, come un miraggio finalmente divenuto reale. Quando ha ricevuto il premio dalle mani di Cate Blanchett, l’applauso ha coperto tutto. Lunghissimo, dieci minuti interi. Nessun accompagnamento musicale, solo mani che battevano, occhi lucidi, corpi in piedi.
Il suo discorso ha avuto la semplicità e la potenza dei gesti definitivi. Ha detto poche parole, rivolgendosi agli iraniani di tutto il mondo: “Mettiamo da parte le differenze, la cosa più importante oggi è la libertà del nostro Paese”. È stato un momento che ha scavalcato il cinema, parlando direttamente al presente, alle sue ferite, alle sue domande.
Un film costruito sull’urgenza
It Was Just an Accident – in francese Un simple accident – è un thriller morale, cupo e densissimo, che racconta la storia di un gruppo di ex prigionieri politici che riconoscono, in un luogo apparentemente neutro, il loro vecchio aguzzino. La domanda che segue è semplice e terribile: cosa si fa? Si affronta? Si perdona? Si uccide? Si finge di non sapere?
Panahi non cerca risposte. Costruisce un film teso, spesso claustrofobico, dove la realtà si piega a visioni che hanno il sapore del sogno ma anche dell’incubo. Le inquadrature sono geometriche, il montaggio frammentato, il tempo sospeso. Non ci sono colpe esibite, né giustificazioni. Solo una verità spezzata che riemerge dal passato e chiede di essere guardata in faccia.
Il film non sarebbe potuto esistere altrove che in Iran. Ma non è un’opera solo iraniana: è una riflessione universale sul potere, sulla responsabilità e sul dolore che non scompare. È anche un grande gesto di cinema, che riesce a dire moltissimo con pochissimo, facendo della sottrazione un’arma narrativa.
Una Palma politica, ma mai ideologica
Questa vittoria non è solo simbolica. È politica nel senso più profondo: afferma che l’arte può ancora disturbare, ancora sfidare, ancora sopravvivere. Non è un premio “contro” qualcuno, ma “per” qualcosa: per chi racconta senza paura, per chi guarda senza voltarsi, per chi crede che le immagini possano cambiare i destini.
Il presidente della giuria, Paolo Sorrentino, ha dichiarato: “Non potevamo che premiare il film che ci ha messo più a disagio, che ci ha tolto ogni alibi, ogni distanza. Il cinema di Panahi è un’arte senza protezioni. E Cannes, quest’anno, ha deciso di non proteggersi”.
Ma Cannes è anche altro. E quest’anno, lo è stato più che mai.
Perché se Panahi è stato il cuore pulsante del festival, attorno si è mosso un mondo intero. C’erano registi al primo film, vecchie conoscenze, esploratori dell’immagine e narratori silenziosi. Il Grand Prix è andato a Joachim Trier per Sentimental Value, un dramma rarefatto che esplora l’assenza di parole tra un padre e una figlia. Trier torna ai toni di Oslo, August 31st, ma con una maturità nuova, con una delicatezza che accarezza anche le zone d’ombra.
Il Premio della Giuria, quest’anno condiviso, ha visto due anime opposte ma in qualche modo complementari: Sirât di Óliver Laxe, una parabola spirituale girata nel deserto marocchino, e Sound of Falling di Mascha Schilinski, un’opera sonora e sensoriale che racconta la depressione post-partum come una discesa negli abissi. Due film coraggiosi, forse imperfetti, ma vitali.
Le voci del Sud del mondo
A dare spessore all’edizione ci hanno pensato anche le Americhe. The Secret Agent, del brasiliano Kleber Mendonça Filho, ha ricevuto il premio per la miglior regia. È un film spiazzante, ambientato durante gli ultimi anni della dittatura militare brasiliana, dove il protagonista – interpretato con feroce eleganza da Wagner Moura – si muove in un mondo dove nulla è ciò che sembra. Moura ha ricevuto anche il premio come miglior attore, ed è difficile immaginare qualcuno che avrebbe potuto rubarglielo. Il suo volto, scavato, ironico, tragico, è rimasto nella mente di tutti a lungo, ben oltre la fine del film.
Il riconoscimento alla miglior attrice è andato invece a Nadia Melliti per La Petite Dernière, un racconto di formazione in una banlieue francese, diretto da Anne-Lise Vachette. Melliti è magnetica, vera, mai sopra le righe. Il suo sguardo da adolescente che capisce troppo in fretta cosa significhi crescere ha incantato tutti. E ha riportato al centro dell’attenzione una generazione di attrici giovani, finalmente svincolate dagli stereotipi.
La miglior sceneggiatura è andata ai fratelli Dardenne, ancora una volta protagonisti silenziosi, con Young Mothers, una riflessione sulla maternità, sulla marginalità e sulle possibilità del perdono. Un film piccolo solo in apparenza, che si insinua sottopelle.
I nuovi inizi
La Caméra d’Or per la miglior opera prima è andata a The President’s Cake, diretto dall’iracheno Hasan Hadi. È la storia, surreale e struggente, di un pasticciere di Baghdad incaricato di preparare la torta per il compleanno del dittatore. Un film che riesce a essere comico, tragico e poetico insieme. La critica l’ha definito “Kusturica a Baghdad”, ma è molto di più: è una dichiarazione d’identità, una voce che nasce da un angolo del mondo dove fare cinema è ancora un atto pericoloso.
Tra i cortometraggi, ha colpito I’m Glad You’re Dead Now di Tawfeek Barhom, cupo, feroce, ironico. Una satira sulla morte e sulle dinamiche familiari che ha vinto la Palma per il miglior corto con un consenso pressoché unanime.
De Niro e Washington: il tempo, la memoria, la leggenda
Ma il momento più inatteso è arrivato fuori concorso. Robert De Niro e Denzel Washington sono saliti insieme sul palco per ricevere la Palma d’Oro onoraria. Due colossi del cinema americano, due icone diverse e complementari. De Niro ha tenuto un discorso breve, intenso, politico: “Il cinema non è mai innocente. Non oggi. Non più”. Washington ha parlato di opportunità, di rappresentazione, di come il cinema possa e debba restituire dignità alle storie di chi non ha mai avuto voce.
La standing ovation è durata quasi quanto quella per Panahi. Ed è stato bello vedere il passato e il presente stringersi la mano, senza invidia, senza distanza.
Denzel Washington: classe, potenza e silenzio
L’omaggio a Denzel Washington è stato uno dei momenti più solenni — e al tempo stesso più sobri — del Festival. Nessuna celebrazione roboante, nessuna clip autocelebrativa montata come uno spot. Solo lui, in smoking nero, sguardo profondo e parole misurate.
Ha parlato poco, come fa sempre. Ma ogni frase aveva il peso di una carriera intera. Denzel non è mai stato un attore “di festival”, eppure in sala c’era una tensione rara. Una voglia di ringraziarlo per tutto: Malcolm X, Training Day, Glory, ma anche per quei ruoli meno conosciuti, spesso più sottili, che hanno costruito l’uomo oltre l’icona.
Quando ha detto “La grandezza non è mai urlata”, si è capito che non parlava solo del cinema. Ma di un modo di stare al mondo. E Cannes, per un attimo, ha smesso di essere glamour. È diventato un tempio.
Robert De Niro: il discorso che ha fatto tremare il Palais
E poi c’è stato lui. Robert De Niro. L’uomo che non ha bisogno di presentazioni, ma che ogni volta si reinventa come se le aspettasse ancora. L’omaggio alla carriera gli è stato consegnato tra standing ovation e occhi lucidi. Ma è quando ha iniziato a parlare che il Festival ha cambiato volto.
Il suo discorso non è stato un discorso. È stata una piccola rivoluzione. Ha cominciato con i ringraziamenti, certo. Poi ha iniziato a parlare dell’America. Della memoria. Del potere delle immagini. E infine, con una lucidità disarmante, ha pronunciato parole che nessuno si aspettava: «Quando il cinema tace di fronte all’ingiustizia, allora diventa complice.»
Un attacco implicito alla politica del suo paese, ma anche una riflessione universale. Sul ruolo dell’arte. Sulla responsabilità. Sulla possibilità di fare qualcosa, anche solo raccontando bene una storia.
C’era chi annuiva. C’era chi si stringeva nelle spalle. Ma nessuno si è distratto. Perché De Niro, con il suo sguardo stanco e la voce bassa, ha fatto qualcosa di semplice e potente: ha detto la verità.
La notte che chiude il sipario
L’ultima sera, tra i tavoli bianchi di Villa Domergue, mentre la notte scendeva sulla baia e i bicchieri tintinnavano piano, si percepiva una strana quiete. Non c’era frenesia, non c’era quel bisogno tipico dei festival di rincorrere il prossimo scoop. C’era, invece, una sensazione più rara: la consapevolezza di aver assistito a qualcosa che resterà.
Perché Cannes 2025 ha fatto esattamente quello che il cinema dovrebbe fare: ha ascoltato il mondo. E, per una volta, ha saputo rispondere.
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