“Amerikatsi”: una finestra sull’identità, la libertà e il sogno armeno
Nel panorama sempre più globalizzato del cinema indipendente, Amerikatsi emerge come un piccolo gioiello narrativo, sospeso tra fiaba e dramma storico, capace di accendere riflessioni profonde sull’identità, la memoria e la libertà. Presentato in anteprima al Woodstock Film Festival e selezionato come candidato armeno per l’Oscar al miglior film internazionale 2024, questo film ha conquistato l’attenzione della critica internazionale grazie a una storia semplice ma potentissima, che attinge direttamente alla biografia culturale e familiare del suo autore.
Un ritorno, una prigione, uno sguardo
La vicenda è ambientata nel 1948 e racconta la storia di Charlie Bakhchinyan, un armeno cresciuto negli Stati Uniti che decide di “tornare” nella madrepatria sovietica alla fine della Seconda guerra mondiale, animato da un ideale romantico e patriottico. Tuttavia, il suo entusiasmo si scontra con la dura realtà dello stalinismo: appena arrivato a Yerevan, Charlie viene arrestato e condannato a sei anni di prigione per il solo fatto di essere rientrato “dall’Ovest”. Una premessa narrativa che potrebbe sembrare tragica, ma che si trasforma in una parabola profondamente umana e poetica.
La chiave del film è la cella di Charlie, dalla cui finestra egli può osservare, senza essere visto, la vita quotidiana di una coppia che abita in un edificio vicino. Inizia così un vero e proprio atto di voyeurismo empatico, dove lo sguardo del protagonista — e con lui quello dello spettatore — si posa su gesti minimi, sulla routine domestica, sulle emozioni silenziose di una famiglia. È attraverso questa finestra che Charlie ricostruisce il suo legame con l’Armenia, non come nazione idealizzata, ma come luogo reale, abitato da persone reali. Un mondo che, paradossalmente, si rivela più autentico dal carcere che da fuori.
Un film sull’identità… e sull’illusione dell’identità
Amerikatsi — che in armeno significa proprio “l’americano” — affronta con finezza uno dei nodi centrali della diaspora: la difficoltà, spesso insormontabile, di tornare “a casa” quando casa non è più un luogo, ma un’idea, una nostalgia o un’illusione. Charlie è straniero ovunque: negli Stati Uniti è l’armeno, in Armenia è l’americano. La sua condizione di “esule perpetuo” lo accomuna a tante storie migranti del Novecento, ma la narrazione evita ogni retorica o vittimismo, puntando piuttosto sulla resilienza, sull’umorismo lieve e sull’umanità.
La prigione, in questo senso, si fa metafora: spazio chiuso ma aperto all’immaginazione, luogo di reclusione e, paradossalmente, di rinascita interiore. La finestra diventa uno schermo cinematografico ante litteram, attraverso cui Charlie “guarda” la vita, si emoziona, partecipa, cresce. Il suo sguardo è il nostro.
Regia e recitazione: delicatezza e profondità
Michael Goorjian, già noto per il suo lavoro d’attore in film come SLC Punk! o nella serie Party of Five, si dimostra qui un regista sorprendentemente maturo. La sua messa in scena è misurata, costruita su inquadrature statiche, luci naturali, silenzi che parlano. Ma è anche capace di guizzi visivi che donano poesia a un contesto storicamente opprimente.
Lo stesso Goorjian, nei panni di Charlie, offre una performance intensa ma trattenuta, in perfetto equilibrio tra stupore, malinconia e tenerezza. Il cast armeno che lo accompagna — tra cui spiccano Hovik Keuchkerian e Nelli Uvarova — contribuisce con autenticità e calore alla riuscita del film.
Un film piccolo, ma necessario
Amerikatsi è un’opera che resiste alle classificazioni: non è un film storico in senso stretto, né una commedia, né un dramma. È un racconto personale, universale nella sua specificità, un esempio brillante di come il cinema possa raccontare la complessità dell’identità senza proclami, senza ideologie, ma con l’arma disarmante della semplicità.
In un tempo in cui il discorso pubblico tende a polarizzarsi, Amerikatsi ci invita a rallentare, ad ascoltare, a guardare. A ricordarci che l’identità non è mai un ritorno, ma un cammino continuo, spesso accidentato, fatto anche di errori, di sogni infranti e, se siamo fortunati, di nuove finestre da cui osservare il mondo.
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