Il 2025 segna la fine di un’epoca: Arnaldo Pomodoro ci ha lasciati. Con la sua scomparsa, avvenuta a 98 anni, non perdiamo soltanto uno degli artisti più significativi del nostro tempo, ma un vero e proprio architetto della memoria collettiva, uno scultore capace di modellare lo spazio pubblico e privato come pochi altri hanno saputo fare. Le sue sfere lacerate, i suoi dischi enigmatici, le sue colonne e le sue torri ci accompagnano da decenni come presenze silenziose, punti fermi del paesaggio urbano e simbolico.
Pomodoro ha saputo parlare al mondo attraverso una lingua fatta di materia, di vuoti e di pieni, di superfici perfette e di squarci che ci spingono a interrogarci su ciò che si cela dietro l’apparenza delle cose. Oggi che non c’è più, ci restano le sue opere: sentinelle del nostro tempo, bussole per orientarci tra le fragilità e le tensioni del presente.
Un uomo che veniva dal mare e guardava le stelle
Arnaldo Pomodoro era nato nel 1926 a Morciano di Romagna, ma si era formato a Pesaro, città che non ha mai smesso di portarsi nel cuore e che spesso ha ricambiato con affetto e riconoscenza. Sin da giovane, il mare Adriatico e i suoi orizzonti infiniti avevano plasmato il suo sguardo: quell’idea di spazio aperto, di infinito da esplorare, di mistero da sondare è rimasta per sempre nella sua arte. Prima ancora di diventare lo scultore che tutti conosciamo, Pomodoro è stato un tecnico del catasto, un geometra che disegnava mappe e confini, che misurava la terra e le architetture. Forse anche per questo nelle sue opere ritroviamo quella tensione tra ordine e caos, tra misura e imprevedibilità, tra geometria e lacerazione.
Arrivato a Milano negli anni Cinquanta, Pomodoro si immerse nell’atmosfera fervida del dopoguerra, quando la città era un laboratorio di idee, di progetti, di avanguardie. L’incontro con Lucio Fontana, Enrico Baj, Piero Manzoni e molti altri fu decisivo. Ma Pomodoro seppe trovare una strada tutta sua: un linguaggio che univa la monumentalità classica alla tensione esistenziale dell’uomo contemporaneo.
Le opere che hanno ridefinito lo spazio pubblico
La forza di Arnaldo Pomodoro è stata quella di uscire dai musei e dagli atelier per dialogare con lo spazio urbano, con la vita quotidiana delle persone. Le sue sculture non sono pensate per essere osservate da lontano, come reliquie da ammirare in silenzio: sono inviti a entrare, a esplorare, a perdersi nei dettagli, a toccare la materia e a sentirne la vibrazione. È impossibile non fermarsi davanti alla Sfera con sfera che troneggia davanti alla Farnesina a Roma, o a quella collocata nei giardini del Palazzo di Vetro dell’ONU a New York. Quelle sfere, apparentemente perfette e poi lacerate, ci raccontano di un ordine che si frantuma, di un’armonia che nasconde un’anima segreta, fatta di ingranaggi, di architetture immaginarie, di mondi interni da scoprire.
E come non citare il Disco solare di Pesaro, il Grande disco di Milano, la Colonna del viaggiatore a Copenhagen, le sue torri e i suoi labirinti che costellano città in tutto il mondo? Ogni opera di Pomodoro è un tentativo di rendere visibile l’invisibile, di dare forma a ciò che sfugge, di trasformare il bronzo, il rame, l’argento in mappe dell’inconscio collettivo.
Il segreto delle sue superfici
C’è qualcosa di ipnotico nelle superfici delle sculture di Pomodoro. Quelle lacerazioni, quei tagli, quei solchi sembrano ferite, ma anche aperture verso un altrove. La superficie liscia, quasi specchiante, si interrompe all’improvviso per lasciar intravedere un mondo interno fatto di misteriose strutture, di labirinti, di città invisibili. È un gioco di contrasti che non smette di affascinare: la perfezione e la frattura, l’equilibrio e la tensione, la superficie e la profondità.
Pomodoro stesso amava dire che le sue opere erano “strumenti per navigare l’invisibile”. Ed è proprio questo il dono che ci lascia: la possibilità di intravedere, attraverso le fenditure della materia, i mondi nascosti dietro l’apparenza.
Il teatro, l’architettura, il sogno del labirinto
L’opera di Pomodoro non si è mai fermata alla scultura. Ha lavorato per il teatro, creando scenografie e costumi per la Scala di Milano, per il Teatro dell’Opera di Roma, per importanti teatri internazionali. La sua passione per l’architettura lo ha spinto a immaginare spazi totali, come il grande Labirinto esposto alla Fondazione Pomodoro e in altre sedi nel mondo: un percorso immersivo in cui lo spettatore si perde e si ritrova, in un viaggio simbolico dentro sé stesso e la propria epoca.
Il labirinto, del resto, è una delle metafore centrali del lavoro di Pomodoro: simbolo della complessità del mondo, della necessità di cercare, di perdersi per potersi ritrovare. Un tema antico che il Maestro ha saputo reinterpretare in chiave moderna, regalandoci installazioni e progetti capaci di parlare al cuore e alla mente.
La Fondazione: il lascito vivo del Maestro
La Fondazione Arnaldo Pomodoro a Milano è uno dei doni più preziosi che l’artista ci lascia. Fondata nel 1995, è molto più di un luogo dove conservare le sue opere: è un laboratorio di idee, un centro di ricerca, uno spazio dove giovani artisti possono confrontarsi, esporre, sperimentare. Pomodoro l’ha sempre immaginata come un organismo vivo, capace di evolversi e di accogliere il nuovo. In un’epoca in cui l’arte rischia spesso di diventare sterile celebrazione di sé stessa, la Fondazione rappresenta un modello di apertura e di dialogo, in perfetta coerenza con il pensiero del suo fondatore.
L’uomo dietro il mito
Dietro il monumentale artista, dietro il mito del grande scultore celebrato in tutto il mondo, c’era un uomo semplice, ironico, capace di ascoltare. Chi lo ha conosciuto racconta di un Maestro curioso fino all’ultimo, sempre pronto a confrontarsi con i giovani, a discutere, a raccontare aneddoti, a progettare nuove opere anche quando l’età avrebbe potuto giustificare il ritiro. Pomodoro non si è mai fermato: la sua mente era sempre in movimento, proprio come le sue sculture, che sembrano eternamente sul punto di aprirsi, di trasformarsi, di svelare un segreto.
Il vuoto che resta
La notizia della sua morte ha lasciato un vuoto profondo nel mondo della cultura. Ma c’è un modo per riempirlo: tornare a guardare le sue opere. Fermarsi davanti a una delle sue sfere, osservare i dettagli delle lacerazioni, perdersi nei meandri delle superfici, lasciarsi interrogare da quel dialogo tra ordine e caos, tra luce e ombra. Pomodoro ci invita ancora una volta a non fermarci alla superficie delle cose, a cercare sempre oltre, a esplorare, a domandarci.
Un’eredità che continuerà a parlare
Arnaldo Pomodoro lascia un’eredità immensa, non solo in termini di opere disseminate in ogni angolo del mondo, ma come esempio di coerenza, di ricerca instancabile, di dialogo tra l’arte e la vita. Le sue sculture continueranno a parlarci, a interrogarci, a sfidarci. Continueranno a essere punti di riferimento nelle nostre città, nei nostri paesaggi interiori.
Oggi più che mai sentiamo il bisogno di artisti come lui: capaci di restituirci una visione complessa, non banale, del nostro tempo; capaci di trasformare la materia in racconto, il bronzo in pensiero, la scultura in poesia.
Addio, Maestro
Ci piace immaginare Arnaldo Pomodoro come il navigatore che ha attraversato il tempo con le sue “macchine per sondare l’invisibile”. Ci piace pensare che le sue opere restino come fari nella notte, come punti luminosi che continueranno a guidarci nel buio delle incertezze. Ci piace ricordarlo mentre osserva una delle sue sfere, come faceva spesso: con quello sguardo attento, curioso, profondo.
Grazie, Maestro. Il tuo tempo scolpito continua a pulsare nel cuore delle città, nei luoghi dell’arte, nelle nostre coscienze. E continuerà a farlo, finché ci sarà qualcuno disposto a guardare oltre la superficie delle cose.
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